MARINO, SANTARELLI: “RINNOVAMENTO NELLA CONTINUITA’ COL MALGOVERNO DI PALOZZI? CECCHI E’ INGENUO E INCOSCIENTE. SUL…
L’Opinione: Polemica Aversa-Santarelli sul territorio castellano. Voi che ne pensate?
24/06/2013Questo articolo è stato letto 6667 volte!
Giulio Santarelli, già Presidente della Regione Lazio e oggi apprezzato viticoltore castellano, ha scritto, basandosi su anni di esperienza e ricerche, un nuovo libro sulla viticoltura a Roma e nei Castelli Romani, facendo un escursus nella storia e nell’evoluzione del territorio, dal punto di vista agricolo ed urbanistico. Maurizio Aversa ha scritto un resoconto critico dell’evento, al quale Santarelli ha ritenuto dover rispondere, specificando alcune questioni.. Ma ovviamente, Aversa, gli ha scritto la contro-risposta. Ci sarà un quarto round? Non lo sappiamo, ma questo botta e risposta, intanto, testimonia che la voglia di discutere di politica e scelte a Marino non si è sopita, quindi, nel proporvi una lettura delle due diverse campane, vi invitiamo a dire la vostra nei commenti.
1° ROUND — AVERSA
Presentato ai Castelli romani il libro-provocazione di Santarelli sulla vitivinicoltura. Propone difesa dell’ecosistema e politica di cambiamento.
di Maurizio Aversa
Giustamente Sandro Caracci, già presidente del Parco dei Castelli romani, intervenendo alla presentazione del libro di Giulio Santarelli “La viticoltura a Roma e nei Castelli Romani — Origini, Sviluppo, Declino e Idee per la Rinascita” edito per i tipi di Pieraldo Editore, che si è svolta a Marino sabato 15 giugno presso il Museo Civico Mastroianni di Marino, ha consigliato la lettura, la riflessione ed ha auspicato l’adozione di comportamenti coerenti (da parte di amministratori e dalla classe dirigente della società marinese e castellana) con alcune indicazioni sulla difesa ambientale che emergono dal libro stesso.
E’ importante questa indicazione di Caracci perché è uno degli interventi non in scaletta, svolti a ruota libera durante il pomeriggio marinese che ha messo insieme decine di persone che hanno ascoltato tesi proprie dell’autore; approfondimenti linguistici, filosofici e sinottici insiti nel libro stesso svolti dal prof. Franco Campegiani che ama declinarsi filosofo e vignaiolo; spiegazioni e illustrazioni del dott. Gaetano Ciolfi, direttore dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia S.O.P. di Velletri. L’esposizione che è stata guidata, come un padrone di casa ospitante da Armando Lauri, sodale culturale e politico, oltre che amico personale di Giulio Santarelli, ha consentito a tutti di presentare aspetti e approfondimenti del testo in presentazione. Noi abbiamo partecipato con attenzione e attivamente, anche alla degustazione dell’ottimo “moscato rosato” servito fresco della cantina Castel De Paolis, l’azienda di Giulio Santarelli che dagli anni ottanta ha curato nella nascita, nella cura, nella ricerca di innovazioni che riconducono alle radici.
Perché, come dice Campegiani, “le radici, sono quanto di più moderno e innovativo, in agricoltura come nelle cose della vita”. Abbiamo ascoltato, dalla voce dell’autore, raccontare – col suo “modo fiume” di essere marinese appassionato nelle cose che affronta – di una analisi, di un convincimento, di una provocazione. Per conto nostro, proviamo a “leggere” quanto da egli proposto in vario modo. L’analisi, ad esempio, soprattutto nei richiami autobiografici, non sempre ci sembrano collimare con la realtà effettuale. Che, invece, viene descritta, a grandi linee per quello che è stata. E’ un “giallo” questo volume. Un giallo di pregio. Ad esempio ha il pregio e il mistero che accompagna ogni narrativa piena di suspence, di inserirci in un ambiente noto, ma presentato come in penombra. Una quotidianità tattile di cui si è smarrita l’avvertenza, la consapevolezza dell’esistenza stessa. Infatti, come è nei gialli classici, concentrando l’attenzione sui “protagonisti” apparenti, anche perché poi è lì che si cela l’assassino (o è un complotto con più delittuosi colpevoli?), non si tiene in giusto conto un substrato umano, una base di “humus” dove innestare colture e culture, che poi daranno corpo al mondo esistente. Infatti, assurto a protagonista il produttore, l’artigiano della vite (l’artista della vite, direbbe Campegiani),va individuato il movente.
Niente di eccezionale: come in tutti i gialli, o sono passioni personali o sono soldi. E qui il movente è proprio il denaro, come sottolinea Santarelli, citando Vandana Shiva, che viene osannato a wall street perché “da denaro produce denaro”; ma poi dimentica –il mondo occidentale. L’occidente capitalistico- che per apprezzare la vita, le cose vive che si rinnovano nella propria stagionalità, occorre tornare alla terra e ai suoi frutti. Alla triade completa, il protagonista-vittima, il movente-denaro, non resta che la folla di assassini: la classe dirigente che nei decenni ha sposato il liberismo, il capitalismo predatore (e qui il libro, forse anche per comodità di relazione argomentale spazia poco e si rivolge solo alla speculazione edilizia, al consumo di suolo). Sarebbe un po’ complicato, e dovrebbe assolvere un po’ troppo sbrigativamente anche se stesso e i propri ruoli (pubblici) passati, Giulio Santarelli, se dovesse approfondire l’analisi sul capitalismo, sulle classi dirigenti del Paese Italia, anche forgiate (comprese le derivazioni attuali che giustamente ora denuncia) dalla parte politica a cui egli stesso ha contribuito a dare corso. Sarebbe complicato a tal punto che dovrebbe invocare, in estremo tentativo onnicomprensivo dell’analisi, della soggettivazione e delle conclusioni a cui giunge oggi, un istituto comportamentale ad egli sconosciuto: dovrebbe invocare e praticare l’autocritica costruttiva. Cosa che assolutamente non fa. Non è nelle sue corde. Non è nel “personaggio” che interpreta ed è. Non vuole neppure prendere in cosiderazione. Tanto è vero che sfugge. Anzi rifugge, in un artificio, che quasi potrebbe “offendere” l’ospite filosofo che lo sta accompagnando nella bella descrizione analitica della realtà mutata. Infatti, Santarelli sentenzia che “sono finite le ideologie”!
Aggiunge che la dimostrazione di ciò è che mentre prima – e qui c’è un rimando alla crisi che dal 2008 devasta il capitalismo – c’era la lotta di classe e gli operai ora l’unica parvenza di lotta di classe è il benessere ecosostenibile che i cittadini (di città) reclamano nella loro vita quotidiana. E qui, addirittura, sposa ed indica il motivo – questo della ecosostenibilità semplificata – ha trovato coerenza del proprio agire politico nel sostenere le posizioni politiche dell’amministratore Renzi. Ecco, in tutto ciò, fino ad ora sono restati fuori – e lo sono anche nel libro – i lavoratori della terra, i braccianti, i part time, i senza diritti, gli sfruttati, che hanno reso possibile l’applicazione di quelle intuizioni che il “produttore Santarelli” è stato capace di scovare. Grazie, come deferente ricorda egli stesso, alla “supervisione di idee e scelte” indicate dal prof. Attilio Scienza, enologo numero uno al mondo. Ecco tutto ciò, senza chi “scacchia”, chi “innesta”, chi “raccoglie”, chi “trasporta”, chi mette le proprie braccia al servizio quotidiano della vigna, avrebbe come risultato, probabilmente la stessa qualità che è stata eccellentemente trovata dalle intuizioni e capacità di Santarelli e della sua azienda, ma sarebbe – se curata da egli solamente e dalla famiglia – 100 volte, mille volte, minore nei numeri.
Per questo è “normale”, se non si coglie questa “immediata sensibilità di classe e di situazione di sfruttamento oggettivo nella catena di produzione anche nei beni della terra”, che poi si giunga sbrigativamente a sentenziare sulla fine delle ideologie. Perché, chiederemmo all’autore, l’insieme del sistema di idee che egli propone circa l’ecosostenibilità, circa una visione di futuro (nel ridare programmazione e potere ordinatore) anche nell’economia locale e globale, non è essa stessa una proposta “ideologica”? Perché, incalzeremmo, quando preoccupato e speranzoso propone di chiedere alle classi produttive agricole (magnifico l’esempio di Ciolfi circa il consumo di suolo e di acqua nel parallelo tra l’espianto di vite e l’innesto di coltivazioni di kiwi) di rinunciare al “guadagno facile” e di perseguire un giusto guadagno, ma che assicuri il futuro di tutti, non pone un quesito ideologico? Non propone, in ultima istanza una critica al capitalismo predatore? Oppure vuole iscriversi nella schiera, fatta di illusionisti o illusi che pensano ad un “capitalismo buono”? Che si, il sistema porta a sfruttare, ma solo a piccole dosi! Per questo, l’apprezzabile fatica intellettuale va premiata nella sua “novità”, che, essenzialmente, consiste nell’aver prodotto sistemicamente una raccolta (secondo la ricerca dell’autore è dal 1939 che non veniva svolto un libro simile) che partendo dalle caratteristiche fisiche, geologiche, geoclimatiche, morfologiche del territorio su cui insiste il nostro interesse (Marino e i Castelli romani) lo mette sotto gli occhi del lettore e lo arricchisce via, via.
Della storia e della cultura che nei secoli, dal punto di vista della vite e “degli stili di vita” come sottolinea Campegiani, che sono la condizione e il risultato del prodotto agricolo finale, nel nostro caso la vite. Della stessa visione economica di scala per determinare come si sono compiuti salti – positivi e negativi – nell’uso del suolo su cui prospera, o prosperava questa attività vitivinicola. Così vengono ricordati l’inarrestabile espansione dell’urbanizzazione, sia da Roma verso i Castelli, che degli stessi centri castellani che hanno ampliato o replicato in forma “moderna e disordinata” se stessi più a valle. Questa descrizione, fa indicare all’autore, che ormai occorre prendere atto di dover ricorrere ad uno spartiacque. Per questo ha buon gioco, con la coincidenza delle scelte dei cittadini degli ultimissimi anni e mesi operati nelle urne, nel reclamare, nell’indicare, che il consumo di suolo agricolo ormai deve essere pari a zero.
Lo ha proclamato Nicola Zingaretti, neo presidente della Regione Lazio; lo ha confermato – indicando proprio l’Agro romano, come livello di attenzione e applicazione prioritaria – il neosindaco di Roma Ignazio Marino. Insieme a questo zero consumo di suolo, il produttore Santarelli, il “contadino” Santarelli, tiene ad indicare, e racconta episodi di una battaglia in corso, che la ricerca e l’innovazione devono riportare (vale per i disciplinari Doc e Docg) ad abbandonare (gradualmente) l’uso dei vitigni “quantitativi” come la malvasia e riportare in primo piano vitigni come il cannellino. La visione di un ruolo dei Castelli romani che sulla coltura e sulla cultura del vino sia in grado di innestare politiche attive di turismo programmato – magari non solo quello delle gite fuoriporta come riproposto dall’autore – deve passare, e non potrebbe essere altrimenti, sottolinea Santarelli, dalla salvaguardia e dal totale rispetto ordinatore che devono avere le norme, europee e italiana e regionali, della protezione paesaggistica, della protezione paesistica, della precipuità dei Parchi dell’Appia Antica e dei Castelli romani.
Sarà possibile questo? E’ chiaro che occorre, nella concomitanza della crisi sistemica del capitalismo in corso, e nella risposta di governo locale che indica cambiamento; preoccuparsi che in tutta l’area castellana, siano questi temi e questa visione a prevalere. Buttando fuori dal governo locale (ad esempio nelle consultazioni che sono programmate per il prossimo anno) quelle compagini amministrative – per lo più di centrodestra, ma non solo – che in questi anni invece di essere state all’avanguardia nella difesa dell’agricoltura e dell’ecosistema castellano, ne hanno utilizzato lo “charme da marketing” per depredare, per arricchire pochi e impoverire molti, come è in uso all’edilizia speculativa, come è in uso al capitalismo imperante. Per fermarsi al solo esempio di Marino, come pure l’autore fa, queste giunte ultime che hanno scelto di non tenere conto delle leggi di salvaguardia e di tutela, che hanno scelto di basare “fasullamente e in modo miope” un richiamato “sviluppo” edilizio per distribuire reddito al Paese, in realtà hanno rovinato una parte di patrimonio naturale. Aggredito parti importanti di arre agricole. Impoverito artigiani e lavoratori che ora non vedono sbocchi.
Al contrario, come sottolineano e riconoscono ormai operatori nazionali e internazionali del settore, sindacati di categoria imprenditori della filiera edilizia, un diverso modo di creare sviluppo dall’edilizia c’è: è la rigenerazione e la grande ristrutturazione da operare nell’immobiliare esistente, nei centri storici e urbani già realizzati, senza mangiare altro suolo, altra storia, altro ambiente, altra cultura. Quindi, l’ultima parola spetta non alle amministrazioni e alla classe dirigente che sta passando (o che apparentemente è ancora in auge), ma ai cittadini che – anche utilizzando questo utile strumento quale è il libro “La viticoltura a Roma e nei Castelli Romani — Origini, Sviluppo, Declino e Idee per la Rinascita” – potrà scegliere nelle prossime consultazioni elettorali se accettare supinamente uno scivolo verso il baratro, oppure tentare una vera e propria rivoluzionaria riscossa di cambiamento.
di Giulio Santarelli
“Già nel titolo ‑Santarelli si confessa renziano‑, Maurizio Aversa in qualche modo sposta il contenuto del libro su questioni di carattere politico che invece rappresentano soltanto il corollario della narrazione agricola del libro stesso. Peraltro, l’esempio del Sindaco di Firenze è stato da me indicato (nell’esposizione a braccio) proprio perché il sindaco di Firenze ha realizzato, e non soltanto declamato, il “consumo zero” di suolo agricolo. Questione che per me assume valore di civiltà perché sottrae la terra alla speculazione fondiaria e garantisce un futuro alle giovani generazioni. La critica di Aversa (per questa parte delle sue considerazioni) è nell’ottica militante di una Sinistra ancorata alla teoria e alla prassi Marxista-Leninista.
Un’ ottica che non è mai stata la mia, se si eccettua il periodo giovanile quando era ancora in vigore il “patto di unità d’azione” PCI-PSI. Per avere un’idea del clima dell’epoca basta ricordare le parole della canzone della Federazione Mondiale della Gioventù democratica: “La Libertà sull’oscuro mondo brillerà”. L’oscuro mondo ovviamente non era quello in cui loro vivevano ma quello occidentale. E noi ventenni schierati (e plaudenti)dalla parte del blocco sovietico. In Italia quella cultura venne diffusa da riviste di grande spessore intellettuale come: Mondo Operaio,Rinascita,Il Calendario del Popolo e venne veicolata anche dalla collana dei libri tascabili della Universale Economica Laterza. Tra le aberrazioni procurate al popolo non è mancato neppure il tentativo di manipolare l’evoluzione biologica delle specie vegetali con il progetto di Stalin di mettere in campo una genetica di stampo comunista affidata a Miciurin e Lisenko da contrapporre alla genetica dell’Abate Mendel perché di stampo capitalistico, laddove naturalmente la genetica è una disciplina scientifica che non può essere in alcun modo aggettivata. Una pubblicistica che entrò in crisi con il rapporto Kruscev al XX Congresso del PCUS, che mise a nudo i crimini di Stalin e dello stalinismo. Le rivolte di Ungheria,Polonia e Cecoslovacchia che seguirono, si incaricarono di mostrare il vero volto della “dittatura del proletariato”. Risultò così che in quei paesi erano stati costruiti regimi dove le parole uguaglianza,giustizia sociale,libertà,democrazia,pace tra i popoli erano una tragica finzione propagandistica.
La realtà era fatta di privilegi per la nomenclatura, e di miseria per il popolo, al quale non veniva risparmiato il carcere e sovente, per chi osava dissentire, c’era la condanna a morte vera e propria. Ma questi argomenti con il mio libro non c’entrano. Le cose su cui si diffonde Aversa attengono all’eterno dibattito di cui è infarcita la storia della sinistra dal 1921. Per chiudere questo aspetto dirò che la definizione del XX come “il secolo delle ideologie”, da me usata nell’esposizione a braccio, non è una mia invenzione ma appartiene alle riflessioni e all’ampio dibattito che è seguito alla fine del fordismo e alla trasformazione dell’economia globale,verso il terziario e il quaternario: scenari e prospettive che con la lotta di classe c’entrano poco o nulla. E’ per questo che con la trasformazione ed evoluzione dell’economia sono andati in crisi anche i partiti che fondavano la loro ragion d’essere su quel modello di economia e società. Mentre è terribilmente attuale la battaglia per connotare diversamente la lotta dei più deboli e costruire nelle aree metropolitane un quadro di diritti che impedisca agli interessi che ruotano intorno alla speculazione edilizia di rapinare il territorio, non consentendo l’edificazione di quartieri che siano costruiti a misura d’uomo e a tutela della qualità della vita.
Aversa dovrebbe ricordare che la questione della “vita fuori dalla fabbrica” o dal posto di lavoro venne posta già dal segretario della CGIL Luciano Lama negli anni ’70,quando il sindacato di classe scoprì che i lavoratori non potevano esaurire il loro impegno per migliori condizioni, maggiori diritti e più salario nel posto di lavoro se poi il diritto ai servizi della casa,della scuola,della sanità e dei trasporti era inadeguato o assente del tutto. Idee che furono duramente contestate dai gruppi che operavano a sinistra del PCI. Da qui la battaglia per il consumo zero di suolo agricolo e per impegnare risorse e imprese ad operare all’interno dei centri storici per ristrutturarli e dotarli dei necessari servizi.
Detto per inciso, se a Marino fosse stata applicata questa politica, sarebbe stato evitato al contesto urbano e al paesaggio un obbrobrio edilizio e urbanistico come quello della 167 di Costa Caselle. Da qualche parte si dirà che con la trasformazione edilizia molti viticultori hanno trovato conveniente vendere per lasciare il posto alla edificazione. Altri dicono che le ragioni che indussero il centrosinistra marinese nel 2003 a non revocare il PRG adottato e non ancora approvato (si sarebbe agevolmente potuto elaborarne uno nuovo che sarebbe stato molto meno invasivo e più attento alle esigenze di una rigorosa programmazione urbanistica!) fu la questione dei “diritti acquisiti” invocati per non correggere le destinazioni edificatorie tanto generosamente elargite.
Sulla prima questione c’è da dire che, così come nel dopoguerra, chi aveva un buon vigneto poteva usufruire di redditi che gli consentivano una buona condizione sociale: non si capisce perché non si possano ricostruire quelle condizioni salvando l’agricoltura anziché puntare su facili guadagni immediati destinati ad esaurirsi nel giro di pochi anni e con la perdita di un bene che avrebbe potuto garantire un futuro ai figli e ai nipoti. Sulla questione dei presunti “diritti acquisiti”,sia la Direttiva Europea sul Paesaggio che una fondamentale sentenza della Corte Costituzionale ci dicono che è un evidente falso problema. La Direttiva Europea del 2000, convertita in legge in Italia nel 2006,afferma il principio per il quale i vincoli paesaggistici contenuti nei piani paesistici regionali prevalgono su qualunque altro tipo di destinazione urbanistica e indicava in maniera perentoria che i Comuni avrebbero dovuto adeguar i loro PRG ai vincoli regionali entro il 2008. Cosa che i Comuni e la Regione Lazio gestione-Polverini si sono ben guardati dal fare. Le osservazioni di Maurizio, nella dialettica presente all’interno delle varie anime della sinistra, mi hanno qui obbligato a dilungarmi sulla questione urbanistica, che nel libro è trattata solo nell’ultimo capitolo. Come dice il titolo,invece, il libro è una meticolosa ricostruzione della storia gloriosa della viticultura e del vino dei Castelli Romani (Plinio il Vecchio racconta di navi cariche di vino in partenza dal porto di Ostia Antica per rifornire le legioni romane alla conquista dell’Impero).
E’ anche storia della crisi indotta dalle modificazioni intervenuta negli anni ’20 del secolo scorso sulla questione della varietà delle uve. Queste, fino ad allora avevano prodotto vini tipici e prestigiosi, e invece con l’impiego della malvasia di Candia si ottenne purtroppo l’aumento della quantità di uva prodotta a scapito della qualità. La crisi iniziata negli anni ’60, generata dai gruppi che agiscono in regime di monopolio, è stata via via scaricata sui piccoli produttori, i quali, non ricevendo più alcun reddito dalla coltivazione della vigna, la abbandonano. Tipico, e clamoroso, è il caso dell’area della DOC Frascati, che in 3 anni ha visto diminuire i produttori da 870 a 490. Un trend esponenziale che se non verrà fermato mette a rischio la sopravvivenza di un’attività millenaria. Deve essere chiaro che l’abbandono dei vigneti è l’anticamera del degrado del territorio che porta alla perdita del paesaggio che ha connotato per millenni la storia dei Castelli Romani.
Tra l’altro in questi casi a farne le spese non è solo l’agricoltura ma anche il turismo, la gastronomia, il commercio e tutte le attività indotte. In definitiva, la ricostruzione storica compiuta nel libro vuole affermare con forza che è arrivato il momento di dire “basta, fermiamo il declino!”. Smettiamo di ammucchiare mattoni e iniziamo a costruire cattedrali. Riprendiamoci la cultura vitivinicola dei nostri antenati, aggiornata alle innovazioni prodotte dalla ricerca scientifica. Il Professore Attilio Scienza dell’Università di Milano, che ha scritto la prefazione del libro, ha titolato: “Niente cultura, niente sviluppo”. Infatti è il gap culturale prevalente che ha prodotto la crisi. E’precisamente il progetto culturale, il filo conduttore del libro: è dalle varietà di uve pregiate, i sesti di impianto a filare,le tecniche e tecnologie di vinificazione finalizzata a produrre vini di alta qualità che può e deve nascere il prodotto che riconquista la competitività con la migliore produzione Italiana ed Europea, come è stato fino alla seconda Guerra mondiale. Con l’alta qualità e la competitività sarà salvata l’economia agricola e con essa i vigneti,l’ambiente e il paesaggio,incrementando il turismo enogastronomico e aprendo con esso grandi spazi e prospettive per nuova occupazione giovanile e femminile.”
3° ROUND — AVERSA
di Maurizio Aversa
Curioso dove ci ha condotto il trascorrere dei millenni (da Omero e Socrate fino ad oggi, passando per il rinascimento, l’illuminismo, il socialismo scientifico, il marxismo e le attuali scienze ecologiche) nell’attivare logiche di pensiero (prevalentemente occidentale) che, all’apparenza, conducono due analisi distinte (se non contrapposte) per giungere alle medesime conclusioni. Dico a Giulio Santarelli, che ringrazio dell’attenzione fino ad imegnarsi a confutare un commento, che condivido totalmente l’indicazione finale, che è di pensiero, ma che è anche pratica, “pragmatica” di governo locale e non solo, per investire sul futuro difendendo le culture e le colture. E l’ambiente e la salvaguardia delle stesse in cui possono riprodurre la propria vita e vitalità. L’urlo arrabbiato contro gli speculatori, dunque lo condividiamo, al pari dell’auspicio che questo possa far aprire alle giovani generazioni scenari e visioni che puntando su beni ambientali, su sedimentazione culturale, su innovazione e ricerca riescano al meglio a valorizzare, conservando, rispettando e proteggendo l’ecosistema naturale e l’impronta dell’uomo, affinchè persegui l’armonia uomo-ambiente.
Per l’oggi, poi, condividiamo perfino lo stesso obiettivo dichiarato di natura politica (locale): cacciare gli artefici, Giunte Palozzi e suoi sodali e seguaci, dell’assalto al territorio marinese, all’agro romano, ai Castelli romani. A ben guardare, una battaglia simbolica d’avanguardia, verso cui poter far protendere tutte le amministrazioni locali castellane. Infine, non apro da queste colonne un confronto-disquisizione storico per ovvi motivi, ma confermo che la coerenza ruolo della fabbrica, che si è fatta quartiere, proprio secondo un canone di lettura marxista della società; oggi, rafforza l’analisi e la visione che il “proletariato” comunque lo si voglia definire o identificare (il perenne precario che lavora in un gruppo di quattro persone, il prestatore d’opera con partita iva che vive grazie al “caporale” tecnologico etc), è comunque il soggetto sfruttato, da meccanismi di produzione che tendono a riprodurre se stessi senza mutare mai l’origine della proprietà e dei mezzi; quindi per estensione, la fruizione dei beni collettivi (sempre meno tali, dopo la stagione del welfare) e sempre nella disponibilità di tutti. Per questo sono comunista. Per cambiare tutto questo.
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