L’Editoriale. Razzismo, integrazione e diffidenza. Quando sono gli Italiani che devono imparare.

L’Editoriale. Razzismo, integrazione e diffidenza. Quando sono gli Italiani che devono imparare.

28/05/2015 4 Di Francesca Marrucci

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arton19044di Francesca Mar­ruc­ci

 

Sui temi di razz­is­mo, inte­grazione e dif­fi­den­za del­l’al­tro, sta­mat­ti­na face­vo una rif­les­sione.

Sono par­ti­ta da un episo­dio che ha vis­to pro­tag­o­nisti me e Mar­co a gen­naio, in Friuli.

6 gen­naio. Sul­la stra­da per il pran­zo con tut­ti i famil­iari uni­ti per l’oc­ca­sione, ci fer­mi­amo ad una tabac­cheria per acquistare delle gio­cate del super enalot­to da regalare alla tombo­la casalin­ga inven­ta­ta da mio zio, in un paesino friu­lano di qualche migli­aio di abi­tan­ti, dove c’è un uffi­cio postale, un tabac­chi, due bar (che si fan­no con­cor­ren­za) e uno di tut­to. Poco il resto.

Entro. Davan­ti a me il pro­pri­etario è indaf­fara­to con due per­sone. Una è una vec­chia men­di­cante, nem­meno trop­po mal mes­sa, che lamen­tosa­mente gli vuole per forza vendere dei vaset­ti di fiori. Il tabac­caio, che va avan­ti a dire no da un po’, ora è vis­i­bil­mente scoc­cia­to.

Al lato del­la sig­no­ra, il pro­pri­etario serve un anziano, un po’ gof­fo, un po’ rincoglion­i­to, poveri­no, che si sbaglia tre volte tra sol­di, gio­cate e sigarette, con buona pazien­za del tabac­caio che, men­tre con­tin­ua a dire no alla sig­no­ra, cer­ca di fare capire all’anziano quan­ti sol­di deve dar­gli.

Ad un cer­to pun­to, così di bot­to, la men­di­cante rac­coglie le sue cose e se ne va, las­cian­do persi­no la por­ta aper­ta e dan­do­mi una spin­ta.

Io e il tabac­caio ci guardiamo alli­biti e poi lui fa qualche com­men­to del­la serie: ‘E qui tut­ti i giorni uno, una vol­ta le piante, una vol­ta l’uncinet­to, ma io devo lavo­rare per guadagnare i sol­di’ e così via.

È a metà di un’al­tra frase di queste, quan­do il sig­nore anziano fa: “Ma il portafoglio dove l’ho mes­so?” e inizia a cer­carse­lo addos­so, nel­la bor­sa, sul ban­cone.

Io, dopo 15 anni di gial­li e polizieschi, subito dico: “Ma non è che l’ha pre­so quel­la sig­no­ra?” E il tabac­caio dice che ha le tele­camere nel negozio e pos­si­amo subito rivedere quel­lo che è suc­ces­so. Nel frat­tem­po entra anche Mar­co e gli spiego cosa è accadu­to.

Tut­ti insieme guardiamo il fil­ma­to e si vede chiara­mente che la sig­no­ra affer­ra svelta il portafoglio, las­ci­a­to un atti­mo dal sig­nore mez­zo rincoglion­i­to, per poi filare via di cor­sa.

Allo­ra ci dividi­amo i com­pi­ti. Il tabac­caio chia­ma i Cara­binieri e io e Mar­co usci­amo a cer­care la sig­no­ra che non può essere lon­tana.

Dopo un po’ la rin­trac­cio nel bar vici­no, che esce con una grossa brioche (lì non si chia­mano cor­net­ti).

Le dico: “Sig­no­ra, scusi, può tornare un momen­to in tabac­cheria? Il tabac­caio vuole par­lar­le.”

Lei, attra­ver­sa la stra­da di cor­sa ver­so di me, rischi­an­do di essere investi­ta dal­l’u­ni­ca auto in giro oltre alla nos­tra, e mi fa: “Io non ho fat­to niente, io il portafoglio non l’ho pre­so!”

E io: “Sig­no­ra, ma io non ho par­la­to di nes­sun portafoglio!”

E lei: “No, no, io non ho fat­to niente!”

E io: “Ok, le va di tornare un momen­to in tabac­cheria?”

E lei si avvia con me. Arrivati den­tro, c’è un con­fron­to ser­ra­to tra lei, il sig­nore anziano e il tabac­caio. Questi le mostra il video, ma lei capisce poco o fa fin­ta di non capire.

Fa una sce­na madre, si toglie il cap­pot­to: “Volete perquisir­mi? Volete che mi spogli? Ecco, vedete se lo trovate il portafoglio!”

Io le ridi­co che nes­suno vuole toc­car­la e che del portafoglio ha par­la­to lei per pri­ma, il che è stra­no. Il tabac­caio la avverte che stan­no arrivan­do i cara­binieri.

Allo­ra lei se ne va, men­tre entra un altro cliente. Il sig­nore anziano gri­da di chi­ud­er­la den­tro al negozio, ma io gli dico che non si può fare, è seque­stro di per­sona.

Usci­amo e io e Mar­co la trat­te­ni­amo fuori al negozio, par­lan­dole un po’. In effet­ti, non ha così voglia di scap­pare, non sa prob­a­bil­mente dove andare. Le dico se vuole chia­mare qual­cuno, mag­a­ri ha un com­plice a cui ha pas­sato il portafoglio. A Roma, sui bus, si fa così.

Ma lei no, inizia una tirit­era con­tro gli emi­grati che ci tol­go­no il lavoro e invece noi ce la pren­di­amo con lei.

Poi mi dice: “Voi sig­no­ri­na che siete napo­le­tana, lo sapete, no, come van­no ques­ta cose!”

E io: “No, vera­mente sono romana. Lo so come van­no queste cose sig­no­ra, per questo le dico che forse è meglio che questo portafoglio esca fuori. Pazien­za per i sol­di (c’er­a­no den­tro una 50ina di euro), ma il sig­nore ha il ban­co­mat, i doc­u­men­ti. Lei si lamen­ta, ma ha vis­to il sig­nore? È un povero pen­sion­a­to che ha tan­ti prob­le­mi, che vuole fare la guer­ra tra poveri?”

Insom­ma, va avan­ti così per una deci­na di minu­ti, in atte­sa dei cara­binieri, con io che cer­co di con­vin­cer­la a con­fes­sare. La sig­no­ra è con­tenta di par­lare con me, con­tin­ua a dire che sono napo­le­tana e alle mie pre­cisazioni con­tin­ua a rispon­dere “Vab­bè sem­pre del sud siete, io sono di qui, sa?” E rac­con­ta di fat­ti e gente del paese, di come gli immi­grati rubi­no agli ital­iani e io ascolto, paziente. Annuis­co e pro­vo a con­vin­cer­la che se il portafoglio esce fuori, mag­a­ri il sig­nore ritir­erà la denun­cia.

Arrivano i Cara­binieri. Pas­sano davan­ti a me e la sig­no­ra, fuori alla tabac­cheria, e mi guardano male. Io salu­to cor­dial­mente e dico: “Prego, il sig­nore è den­tro, la sig­no­ra res­ta qui con me.” Anche Mar­co è den­tro a tran­quil­liz­zare il sig­nore anziano.

Il sec­on­do Cara­biniere mi guar­da peg­gio del pri­mo. Sospet­to che non abbi­amo gra­di­to la chia­ma­ta nel­la mat­ti­na­ta di fes­ta.

All’ar­ri­vo dei Cara­binieri, la sig­no­ra si agi­ta di più e alla fine, men­tre sono den­tro, mi dice: “Ma se io le dices­si che ho vis­to un portafoglio per ter­ra, lì, dietro l’an­go­lo, sot­to quel­la macchi­na parcheg­gia­ta?”

Io esul­to, entro den­tro e dico: “La sig­no­ra ha det­to dove ha but­ta­to il portafoglio, ven­ite ragazzi,” ai due Cara­binieri.

I due, sem­pre accigliati, mi dicono di restare con la sig­no­ra e uno va a cer­care il portafoglio, l’al­tro res­ta con noi e inizia a pren­dere le gen­er­al­ità del­la sig­no­ra, dopo aver sen­ti­to la mia ver­sione, con me che cal­ca­vo il fat­to che la sig­no­ra ave­va col­lab­o­ra­to e ave­va dimostra­to buona volon­tà.

Lui: “Sig­no­ri­na, qui non siamo a Napoli, ora ci pen­si­amo noi.” Io mi giro ver­so Mar­co e sbot­to a rid­ere. “Ari­da­je, ma voi non dis­tinguete un romano da un napo­le­tano?”

Quel­lo mi guar­da anco­ra più truce, prende la sig­no­ra e inizia a trasci­narla per un brac­cio ver­so la volante. L’al­tro arri­va con il portafoglio, a quel pun­to iniziano il film west­ern. Strat­to­nano la sig­no­ra, le urlano di stare zit­ta, le strap­pano la bor­sa e get­tano il con­tenu­to sul cofano del­la volante, le dicono cose tipo “Zit­ta, devi stare zit­ta. Cos’è sta immon­dizia? Ma ti lavi che puzzi?”

E io riman­go scioc­ca­ta. Mar­co, intuen­do che sto per par­tire all’at­tac­co, mi trasci­na via. Io inveis­co con­tro quei due coglioni che fan­no i ven­di­ca­tori con una vec­chi­et­ta alta un metro e cinquan­ta.

Poi, in macchi­na, Mar­co mi dice: “Guar­da che quan­do sono entrati i Cara­binieri in tabac­cheria, pen­sa­vano che la ladra fos­si tu, per­ché han­no det­to che ave­vano sen­ti­to l’ac­cen­to napo­le­tano!”

Da qui abbi­amo capi­to che se sei del sud, sei sem­pre napo­le­tano, in Friuli, e sei tu il colpev­ole qua­si sicu­ra­mente, in quan­to napo­le­tano e quin­di ladro.

Questo in Italia, con tut­ti i pro­tag­o­nisti ital­iani.

Noi siamo già razz­isti tra noi.

Abbi­amo già dei pre­con­cetti tra di noi.

Come pos­si­amo dire di non essere razz­isti con gli altri?

Le abbi­amo subite queste dis­crim­i­nazioni all’es­tero, ma anco­ra le subi­amo in Italia. Poi, per rival­sa, le fac­ciamo subire anche agli altri.

Se vi capi­ta, se vi va, vi con­siglio di vedere un film bel­lis­si­mo, recita­to da attori magis­trali, che rac­con­ta una sto­ria vera. Il film si chia­ma ‘Mari­na’ ed è la sto­ria di Roc­co Grana­ta, quel­lo che can­ta­va la cele­bre can­zone ‘Mari­na, Mari­na, Mari­na, ti voglio al più presto sposar…’.

Cal­abrese, emi­gra­to da bam­bi­no in Bel­gio per rag­giun­gere il padre mina­tore, negli anni ’50, non nel 1800, ha pas­sato l’in­fanzia a sen­tir­si chia­mare ‘zin­garo’, per­ché gli ital­iani così era­no con­siderati. Ha dovu­to suonare con doc­u­men­ti fal­si, per­ché in Bel­gio gli ital­iani pote­vano fare solo il mestiere dei padri, cioè i mina­tori. Il Bel­gio li toller­a­va solo per quel­lo.

Ha dovu­to subire un accusa di stupro, per­ché ital­iano, e quan­do si sco­prì che il vero respon­s­abile era un ric­co ram­pol­lo fiammin­go che rimase impuni­to, gli venne det­to dal­la polizia: ‘Che vole­vi? Tu sei ital­iano, quel­lo è bel­ga!’

Vive­va nelle barac­che, in mez­zo al fan­go e al degra­do, dove i ragazz­i­ni ital­iani si orga­niz­za­vano in bande per derubare e molestare i ragazz­i­ni bel­gi fuori ai parchi. Quan­do il padre final­mente ottiene dal­la com­pag­nia mineraria una vera casa, cam­bia la sua vita e le sue com­pag­nie.

L’in­te­grazione si fa gra­zie a con­dizioni di vita umane, non sbat­ten­do la gente in barac­copoli.

Chi si lamen­ta che i profughi sono ospi­tati in hotel, si lamen­ta anche se vivono nelle barac­copoli improvvisate ai lati delle vie prin­ci­pali del­la cit­tà, non pen­san­do che in luoghi degra­dati l’uo­mo si degra­da anch’es­so. La gente si lamen­ta per­ché esistono, per­ché ci sono, non ci sarà mai una sis­temazione che sod­dis­ferà, per­ché la sostan­za è che non li vuole.

Come io, essendo del sud, ero napo­le­tana per i friu­lani (come se questo poi fos­se un dan­no fisi­co), come gli ital­iani era­no zin­gari per i bel­gi, per noi lo straniero è solo por­ta­tore di cose neg­a­tive: delin­quen­za, malat­tie, dis­or­di­ni.

Dare per scon­ta­to, questo è da razz­isti.

Inte­grare lo straniero sig­nifi­ca far­gli conoscere come ci si aspet­ta che si com­por­ti qui, sig­nifi­ca inseg­nar­gli una lin­gua, quali sono i suoi dirit­ti e doveri per evitare che altri ital­iani lo sfrut­ti­no e preferiscano usare lui come schi­a­vo, al pos­to vostro a lavo­rare. Sig­nifi­ca scam­biare espe­rien­ze. Sig­nifi­ca inte­grazione.

Inte­grazione non è pietà. Pover­ac­cio, mi fai pena, ti do un toz­zo di pane. Per­ché dopo tre tozzi di pane, il quar­to che arri­va sarà vis­to come un paras­si­ta e gli si dirà di tornarsene a casa sua. Noi abbi­amo gesti­to i profughi e gli immi­grati con queste due mis­ure: o pover­ac­ci di cui avere una ‘pietà a ter­mine’ o rei­et­ti da tenere lon­tani.

Forse è il caso di ripen­sare a come fun­ziona questo Paese ed indi­vid­uare le nos­tre falle, pren­den­do­ci le respon­s­abil­ità di un sis­tema che per decen­ni ha sfrut­ta­to la guer­ra tra poveri e, anco­ra oggi, fa arric­chire pochi su questo busi­ness.

Forse, pri­ma di pren­dercela con chi sta peg­gio, bisognerebbe indi­vid­uare le vere colpe e trovare un’al­lean­za che por­ti a più gius­tizia per tut­ti. L’im­per­a­ti­vo, infat­ti, dovrebbe essere cer­care di stare bene tut­ti, non ‘sto male io e allo­ra stai male pure tu’, per­ché altri­men­ti, anche se gli immi­grati ces­sas­sero di esistere da domani, noi sem­pre come carne da macel­lo sarem­mo trat­tati da questo sis­tema.

E poi con chi ce la pren­derem­mo? Il nord con il sud e il sud con il nord, com’è sta­to fino a che non sono arrivati gli immi­grati.

All’uopo, mi per­me­t­to di con­sigliare un altro bel film del 2011, ‘Cose dell’altro mon­do’, con un cast eccezionale, che rac­con­ta cosa suc­ced­erebbe in Italia se all’improvviso, così, da un giorno all’altro, sparis­sero tut­ti gli immi­grati.

Un dram­ma vero, per­ché nonos­tante quel­lo che la pro­pa­gan­da pop­ulista e le men­ti offus­cate dall’odio vogliono farvi credere, in occi­dente il 70% del­la forza lavoro è basa­ta sul­la pre­sen­za degli immi­grati, quin­di anche tut­ta l’economia.

Pen­sate se non ci fos­sero più badan­ti ucraine, all­e­va­tori indi­ani, rac­cogli­tori africani, mura­tori romeni e così via. Quan­ti ital­iani si prestereb­bero a fare questi lavori? Pochi e niente. Noi abbi­amo stu­di­a­to, ci meri­ti­amo di più.

L’ultima fron­tiera di quel­lo che può fare un ital­iano per arric­chir­si di più sulle spalle del­lo ‘sporco immi­gra­to’, ce lo ripor­tano le cronache del­la scor­sa set­ti­mana.

In Sicil­ia, non si chia­mano più gli uomi­ni (in genere africani) a rac­cogliere i pomodori. Trop­pi casi­ni, poi questi si ribel­lano e pre­tendono con­trat­ti e dirit­ti. Che siamo mat­ti? Ora, si pren­dono gio­vani donne romene con figli pic­coli. Facil­mente ricat­ta­bili, impeg­nate il giorno a rac­cogliere pomodori con turni mas­sacran­ti di 12–14 ore a 5 euro e di notte schi­ave ses­su­ali dei padroni.

Per questo non si indigna nes­suno. Nes­suno fa cortei.

La schi­av­itù negli Sta­ti Uni­ti è sta­ta aboli­ta for­mal­mente 150 anni anni fa. In Italia non abbi­amo il cotone nel 2015, ma abbi­amo tante altre colti­vazioni e tan­ti schi­avi.

Pen­si­amo­ci, pri­ma di dire che i delin­quen­ti sono loro.

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